È in libreria “Quelle in cielo non erano stelle” (Mondadori Contemporanea) di Nicoletta Bortolotti, romanzo che ritorna sulla catastrofe nucleare di Chernobyl, a distanza di trentacinque anni dall’accaduto, narrandola da un’angolatura particolare: la vicenda di una bambina ucraina accolta da una famiglia italiana nell’ambito dei soggiorni benessere per i bambini delle zone contaminate dalla radioattività.
L’azione del libro si svolge fra la foresta lombarda del Parco delle Groane e la foresta rossa vicina a Chernobyl e ha tre voci narranti: quelle di una volpe, della nube radioattiva che vede e commenta dall’alto, e di Omar, il ragazzino figlio della famiglia italiana che accoglie la protagonista Vassilissa. Temi di questo libro sono la salvaguardia dell’ambiente, ma anche l’accoglienza, l’inclusione, lo scambio tra le culture. Ne parliamo con l’autrice.
Perché hai scelto di raccontare Chernobyl dall’angolo visuale delle famiglie italiane che hanno accolto migliaia di bambini ucraini e bielorussi?
Insieme con lo staff della casa editrice e in particolare con la bravissima editor Sara Di Rosa che ne ha intuito l’importanza, ci siamo resi conto che quella storia non era stata raccontata. Non ancora. E dare voce significa anche dare esistenza. L’Italia è stata fra i primi paesi al mondo ad accogliere i cosiddetti “bambini di Chernobyl”. Questa esperienza diffusissima e capillare, ma vissuta un po’ in sordina e con pudore come un’attitudine solidale non esibita, non era stata ancora trasposta in un romanzo, e in particolare modo in un romanzo per ragazzi.
I ragazzi non sanno quasi nulla di quello che è successo a Chernobyl, non hanno alcuna memoria dell’accaduto, e per questo è importante che siano in qualche modo abilitati al ricordo. Solo attraverso la narrazione degli incidenti del passato e soprattutto delle dinamiche umane che li hanno scatenati, i giovani possono responsabilizzarsi per una gestione più accorta dell’ecosistema e delle risorse del pianeta. Fra l’altro, proprio in questo momento Covid-19 ha messo in luce con drammatica urgenza la necessità di reinventare e reimpostare il rapporto fra esseri umani e natura.
Come hai conosciuto le famiglie che hanno ospitato i bambini ucraini e bielorussi? È un’esperienza diffusissima, ma in sottotraccia, non ancora abbastanza raccontata…
Le ho incontrate in perfetto stile “italiano”: sono stata a cena da loro, intorno a un tavolo conviviale, poco prima della pandemia, e mi sono fatta raccontare un’esperienza che li ha cambiati. Li ha riposizionati. Ho ascoltato una madre, un padre e una ragazzina e ci siamo collegati anche con la bellissima bambina che hanno accolto in Bielorussia. Sto scoprendo solo ora, dopo la pubblicazione del libro, quante altre famiglie hanno vissuto in prima persona l’esperienza dell’accoglienza senza dirlo ad alta voce.
Come per esempio Claudia Corradini, ex insegnante e ora sindaco del comune di Merlara in provincia di Padova, che da anni si occupa di organizzare l’accoglienza nel suo paese e ha gestito la pandemia come sindaco continuando ad aiutare e sostenere la “sua” bambina di Kiev: ora quella bambina è una giovane donna che parla l’italiano, ha uno splendido bambino e chiama il sindaco nonna. Ho intervistato anche esponenti di importanti associazioni che in accordo con i Ministeri dei vari Paesi organizzano l’espatrio dei minori in tutta sicurezza. Fabrizio Poli, responsabile dell’associazione Verso Est, mi ha fornito materiale informativo e aneddoti basati sulla sua lunga esperienza.
In che senso l’accoglienza è uno scambio d’affetto profondo fra culture diverse? Il Covid ha bloccato tutto?
Dopo un primo momento in cui i bambini accolti e la famiglia ospitante devono prendere confidenza, gettare il cuore oltre l’ostacolo della lingua grazie anche agli interpreti e adattare la convivenza alle diverse abitudini della vita quotidiana, si crea nella maggior parte dei casi un legame saldo e intenso, tanto che per molti bambini l’Italia rimarrà sempre, anche da adulti, una seconda casa. Dai genitori ospitanti vengono considerati spesso come secondi figli, ma sempre nel rispetto delle loro radici e dei loro affetti e senza togliere nulla alle famiglie d’origine. Si creano pertanto legami forti e sorprendenti anche fra genitori italiani e genitori ucraini e bielorussi.
Molte famiglie italiane sono andate in Bielorussia o in Ucraina, accolte con la stessa generosa ospitalità, e molti bambini ucraini o bielorussi hanno poi deciso, al compimento dei 18 anni, di tornare in Italia per studiare la lingua e magari restarvi. Insomma, l’accoglienza appare come uno scambio di geografie del cuore che crea opportunità. Purtroppo tutti i viaggi sono stati congelati dalla pandemia e molti bambini impazienti di partire dovranno aspettare. Però ci si tiene maggiormente in collegamento online e forse questa è stata una novità positiva.
L’Italia è stata fra i primi Paesi al mondo per numero di bambini accolti. Come si spiega questo movimento di generosità?
L’Italia è un Paese incline a muoversi critiche, ma restio a valorizzarsi. La generosità è vissuta in modo intimo e fattuale. Vorrei richiamare qui una frase pronunciata della moglie del Giusto d’Israele dottor Giovanni Borromeo, il primario del Fatebenefratelli di Roma (raccontato in un mio precedente romanzo “La bugia che salvò il mondo”) che salvò numerosi ebrei in corsia d’ospedale, inventandosi la malattia inesistente del Morbo di K: “Va fatto? Si faccia”. E’ una solidarietà del fare. Ma l’Italia ha anche due pregi che si sono rivelati leve importanti nell’accoglienza rispetto ad altri Paesi: il forte collante sociale della famiglia e la cura verso uno stile di vita e un’alimentazione sani e tradizionali.
Molti bambini ucraini e bielorussi, dopo Chernobyl, si sono ritrovati privi di legami famigliari che potessero sostenerli o addirittura sono stati abbandonati negli orfanotrofi, considerato anche l’alto tasso di disperazione, disoccupazione e alcolismo che i traslochi forzati a seguito dell’incidente si sono trascinati con sé. Un effetto collaterale quasi pari a quello delle radiazioni. In Italia molti di loro hanno trovato una famiglia come non l’avevano mai conosciuta, che in qualche caso è diventata una vera e propria famiglia adottiva, e in qualche caso ha avuto una funzione di sponda, di sostegno affettivo e valoriale in un momento delicato della crescita.
Bisogna poi dire del legame affettivo e solidale delle famiglie italiane ospitanti con le famiglie d’origine dei bambini ucraini e bielorussi, allo scopo di valorizzare tutta la loro ricchezza pur nella carenza frequente dei mezzi economici. E il “buon cibo” italiano, nonché la presenza del mare e della montagna, sono stati veri e propri farmaci, non solo in grado di dimezzare le radiazioni nel sangue, ma anche nella mente.
Come vivono i bambini bielorussi e ucraini e perché è utile per loro venire in Italia?
A distanza di 35 anni dal disastro i soggiorni di accoglienza hanno cambiato forma. Da soggiorni benessere per allontanare i bambini dalle zone radioattive si sono mutati in soggiorni affido e in alcuni casi in adozioni per sostenere bambini completamente soli, abbandonati negli orfanotrofi o con famiglie poverissime e/o disgregate. Dal punto di vista della salute trascorrere anche solo un mese lontani dalle zone radioattive permette di dimezzare la quantità di radionuclidi presente nel sangue.
Perché continuare a parlare di Chernobyl a distanza di 35 anni? E’ ancora attuale quel disastro?
La foresta rossa di Chernobyl continua a bruciare, ha continuato a bruciare anche durante il nostro primo lockdown e, in Ucraina e in Bielorussa, non bisognava fare i conti solo con la pandemia, ma anche con i continui incendi che rilasciavano nell’aria nuova radioattività. I radionuclidi contaminano ancora il terreno, il cibo, l’aria, l’acqua, seppure in misura minore. L’ultimo sarcofago in cui si è voluto imprigionare il reattore è stato ultimato nel 2016.
Il New Safe Confinement è costato 1,5 miliardi di euro ed è stato sponsorizzato da 45 paesi. Pesa 36mila tonnellate e dovrebbe intrappolare la radioattività per circa un secolo. Chernobyl ha mutato il modo stesso di pensarsi della società contemporanea occidentale, per cui si potrebbe conteggiare l’ultimo ventennio del Novecento prima e dopo Chernobyl. Dopo Chernobyl quando il futuro è diventato un luogo sghembo dove abitare e non più la città dell’umana illusione di progresso illimitato. Ricordo inoltre che il disastro di Chernobyl ha modificato la legislazione ambientale europea e mondiale, conducendo al referendum sul nucleare in Italia che ne ha bandito l’utilizzo. Così come un’altra tappa fondamentale e drammatica è stata la fuoriuscita della nube di diossina da una fabbrica di pesticidi a Seveso, catastrofe ambientale che ha condotto alla promulgazione della prima legislazione europea sul controllo industriale.
Dopo tutto questo tempo qual è la situazione delle zone contaminate? Sarà mai possibile tornare a vivere in quelle terre?
È sorprendente come la Foresta rossa, zona di alienazione, sia diventata oggi un’area di biodiversità. Al riparo della presenza umana sono comparse nuove specie di piante e di animali. Questo dovrebbe aiutarci a riflettere su come l’azione dell’uomo non violenti il territorio solo tramite disastri eclatanti, ma anche con l’uso di pesticidi, con il taglio indiscriminato dei boschi per fare spazio alle coltivazioni o agli allevamenti intensivi. Ricordo fra l’altro che il 22 maggio si celebra la giornata mondiale della biodiversità. Ricordo anche molti anziani allontanati dalle loro case dopo la catastrofe (molte delle quali addirittura interrate) vi sono tornati a piedi attraversando la foresta. E ora vivono nelle zone contaminate bruciando la legna, coltivando patate, cipolle e altri ortaggi e allevando oche, galline, mucche e quant’altro. A chi chiede loro se hanno paura della radiazione, dicono di no. Vivono come in un tempo prima del tempo, prima di Chernobyl, con le lampade a petrolio se non hanno la luce elettrica e spesso senza il bagno in casa.
Quali sono le differenze e quali i punti di contatto con la pandemia che stiamo vivendo?
Ho scritto “Quelle in cielo non erano stelle” durante il primo lockdown e ho percepito non solo con la mente ma anche con la pelle il terrore verso un nemico invisibile che assedia all’improvviso senza lasciare scampo. Eppure il virus ci ha concesso almeno un minimo pianeta protettivo all’interno delle nostre abitazioni, una tana in cui ripiegare voci e respiri e sentirci al sicuro. La radiazione, al contrario, penetra in casa, viola anche l’interno, non concede alcuna zona franca, si posa sulle lenzuola e sulle federe dei cuscini, corrompe l’aria, l’acqua, il cibo… Rende impossibile qualsiasi scambio con l’ambiente. Rende invivibile la vita. Anche se, all’ombra di ogni nuovo albero della Foresta rossa è nata poi una luce più chiara. Perché, come dice Jack London: «Vi è una pazienza della foresta, ostinata, instancabile, continua come la vita stessa».
di Antonietta Gnerre
Nicoletta Bortolotti nasce in Svizzera, ma vive in Italia. Laureata in Pedagogia, da quasi vent’anni redattrice Mondadori, autrice per ragazzi e per adulti, pubblica per le maggiori case editrici e collabora con il supplemento culturale de “La Provincia di Como” e con le riviste letterarie “Letteratitudine” e “Clandestino”. Ha pubblicato i romanzi per adulti per Sperling & Kupfer Il filo di Cloe ed E qualcosa rimane, ora ripubblicato con Besa Editrice (premio Carver e premio Leonforte); per Mondadori Sulle onde della libertà (finalista al premio Bancarellino); per Einaudi ragazzi In piedi nella neve (Primo premio Gigante delle Langhe e Primo premio Letteratura Ragazzi Cassa di Cento), Oskar Schindler Il Giusto e La bugia che salvò il mondo. Per Harper & Collins il romanzo per adulti, fra i primi in Italia a narrare dei 30.000 bambini nascosti in Svizzera, figli di emigranti, Chiamami sottovoce (premio Corrado Alvaro-Bigiaretti e premio Giuditta, insieme a Bianca Pitzorno). Grazie a Chiamami sottovoce è stato realizzato un documentario per Rai3 sui bambini nascosti. Per Giunti ha pubblicato Disegnavo pappagalli verdi alla fermata del metrò, storia vera di Ahmed Malis. Per Mondadori Contemporanea il romanzo per ragazzi Quelle in cielo non erano stelle e per Gribaudo l’illustrato Il cielo degli animali.
Foto di Salvatore Benvenga