di Paolo Cappelli
La cronaca della rivoluzione in atto in Libia si consuma sui teleschermi delle nostre TV, dove le testate giornalistiche all news aggiornano di ora in ora la conta dei morti e ammoniscono sulla mutevolezza e la volatilità della situazione nel disgraziato paese nordafricano. Nonostante tutto, è possibile già fare alcune riflessioni su quelle che potranno essere le conseguenze di quanto sta avvenendo. Sono principalmente due le dimensioni interessate dalla crisi, segnatamente quella economico-politica e quella sociale. Innanzitutto, bisogna rilevare che, per anni, il ruolo della Libia è stato forzatamente di secondo piano, in particolare comeconseguenza dell’attentato aereo che, per mano dei servizi segreti libici, costò la vita ai 270 passeggeri e membri dell’equipaggio del volo PanAm 103 e a 11 altri innocenti colpiti a terra dai rottami del velivolo esploso nei cieli di Lockerbie, in Scozia, il 21 dicembre del 1988. Gheddafi fu accusato di aver ordinato personalmente la strage dall’ex ministro libico della Giustizia, Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, ma di prove non ne furono mai esibite. Questo bastò, in ogni caso, a destinare il paese e il suo leader all’oblio. Bombardata dagli americani, nello stesso anno la Libia annunciò di voler collaborare con la giustizia internazionale facendo processare gli indiziati dell’attentato di Lockerbie all’Aja. In cambio, nel 1999, l’ONU sospese temporaneamente le sanzioni multilaterali e il Consiglio di Sicurezza dispose di porvi fine permanentemente qualora la Libia avesse rispettato i restanti punti della risoluzione 883/1992, tra cui quelli sul disconoscimento del terrorismo e della trasparenza in materia di armi di distruzione di massa. Da allora, molti sono stati gli sforzi di Gheddafi di riguadagnare un posto al sole nel panorama internazionale: a seguito di colloqui riservati con gli Stati Uniti, accettò di abbandonare qualsiasi programma nucleare e di consegnare tutte le armi non convenzionali possedute. Poté così ottenere, mentre si procedeva a smantellare l’arsenale nucleare e chimico libico, di uscire dalla lista nera degli Stati finanziatori del terrorismo, nonché la rimozione delle sanzioni americane (2004) e il ripristino delle relazioni diplomatiche con il Paese a Stelle e Strisce.
A sancire il definitivo riavvicinamento con l’Europa, il 27 aprile 2004, a 15 anni dal suo ultimo viaggio ufficiale in Occidente, Gheddafi si è recato a Bruxelles, dove ha espresso la volontà libica di partecipare ai lavori dell’iniziativa sul Partenariato Euro-Mediterraneo in qualità di osservatore, dopo che negli anni precedenti si era sempre dimostrato critico verso l’iniziativa, se non apertamente contro. La decisione di collaborare segnò l’apice di un processo di riformulazione della propria politica estera e interna attuato dalla leadership libica. Il Paese prese le distanze dal terrorismo, cacciò i gruppi che vi avevano trovato rifugio e condannò incondizionatamente gli attentati dell’11 settembre 2001 al World Trade Center e al Pentagono. Gradualmente, anche la retorica del Colonnello sulla questione israelo-palestinese cambiò, diventando più pragmatica e favorevole per una soluzione pacifica del conflitto. Le relazioni italo-libiche, inoltre, sono state tutt’altro che noiose a partire dal 1970, anno in cui vennero confiscati tutti i beni alle imprese e ai privati italiani e avanzate richieste libiche di risarcimento per danni coloniali e di guerra. Nel 1986, poi, ci fu l’attacco missilistico contro Lampedusa.
In tempi recenti, però, Gheddafi ha trovato nel Bel Paese un alleato importante nella sponda settentrionale del Mediterraneo, attraverso il quale ha tentato di sviluppare il proprio piano di investimenti esteri. In seguito alla sottoscrizione del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione nell’agosto del 2008, la Libia ha posto il sigillo a un processo di interazione economica avviato già da tempo. Le entrate italiane da esportazioni in Libia ammontano a 2,38 miliardi di euro, pari al 17,5 per cento del totale (dati 2009). Per contro, le importazioni raggiungono quota 10,6 miliardi, di cui 7,1 miliardi di solo petrolio greggio, cui si devono sommare i 3,7 miliardi di investimenti in azioni italiane da parte dei libici, che detengono l’1% di Eni e il 7,5% di Unicredit (e una posizione da vicepresidente). Gli interessi economici italiani sono enormi, specie nel settore petrolifero. L’Italia è il primo acquirente del greggio libico, mentre da noi la Libia importa principalmente prodotti petroliferi raffinati (oltre il 28% del totale). Aziende come Eni, Enel e Finmeccanica hanno ricevuto commesse importanti, che dovrebbero garantire introiti e la fornitura del meglio della tecnologia italiana per molti anni. E’ questo il motivo alla base delle recenti, significative flessioni registrate nel valore di questi titoli in borsa. Fiat investe in Libia dal 1976 e oggi il 15% della società è stato acquistato con fondi libici. Per contro, circa il 25% delle importazioni di veicoli provengono dall’Italia. Prossimamente, inoltre, l’italiana Sirti stenderà circa 7.000 chilometri di cavi in fibra ottica, mentre la Fininvest ha rapporti indiretti, mediante aziende controllate, con Lafico, la principale finanziaria governativa libica. Per non parlare di un fiore all’occhiello della produzione italiana all’estero, Finmeccanica (il 2% della quale è in mano libica), che dovrà fornirà le tecnologie per il segnalamento, l’automazione, le telecomunicazioni, l’alimentazione, la sicurezza e l’emissione delle credenziali di viaggio per il tratto stradale dal Golfo della Sirte a Bengasi. In totale, il valore degli interessi economici tra Libia e Italia sfiorerà, nei prossimi anni, la cifra di 40 miliardi di euro. Inoltre le autorità libiche, prima della crisi, avevano espresso il desiderio di partecipare al capitale di Eni, come di Telecom, Impregilo, Terna e Generali. Un bel quadro, non c’è che dire.
Molto meno bello è invece il panorama dal punto di vista umanitario. Alle migliaia di morti, dovute all’atteggiamento sanguinario del dittatore libico, tanto da farlo definire “un assassino” persino da Al-Qaeda, fa da sfondo la sistematica e pluriennale violazione dei diritti umani, denunciata a più riprese non solo dalle maggiori organizzazioni non governative che di diritti umani si occupano, ma dalle stesse Nazioni Unite, in particolare dopo la decisione di non prevedere nella legislazione nazionale la possibilità di chiedere asilo politico e la chiusura forzata della locale sede dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, la cui attività fu definita illegale. Non è illogico ipotizzare un forte flusso migratorio verso l’Europa, di cui l’Italia e in particolare l’isola di Lampedusa, sono il naturale cancello d’accesso. Ma è in grado, il nostro Paese, di sopportare da solo un così forte impatto? Il Ministro dell’Interno Maroni, nel suo incontro di ieri con i suoi colleghi dell’area mediterranea, ha ribadito il carattere inedito delle potenziali conseguenze della crisi libica: “Frontex (centro europeo di coordinamento tra Stati Membri dell’UE nel campo della sicurezza frontaliera, ndr) ha stimato non centomila ma 1 milione e mezzo di possibili profughi. E’ una dimensione che non si è mai verificata prima. Occorre – ha insistito il ministro – un nuovo e diverso approccio. E’ qualcosa di completamente nuovo, di completamente diverso da ciò che è successo negli anni scorsi”. Non solo. Voce preoccupata è anche quella del ministro degli Esteri Frattini, il quale ha ricordato come la situazione sia “grave, anzi gravissima, e il tragico bilancio sarà un bagno di sangue, anche per i propositi espressi ieri da Gheddafi, in cui ribadisce di voler colpire il suo stesso popolo”. Ultima, ma non in ordine d’importanza è la notizia non confermata che Al Qaeda avrebbe costituito un emirato islamico a Derna, nell’est del Paese, imponendo l’obbligo del burqa per le donne e uccidendo chi si rifiuta di collaborare.
Non si può non tenere in giusta considerazione, allora, anche alla luce degli aspetti economici sopra richiamati, che l’evoluzione della situazione nel paese africano, più dell’immediata catastrofe umanitaria e del conseguente esodo, costituisce il vero nodo della questione. Lo ha sottolineato il Ministro della Difesa La Russa in un suo intervento di questa mattina, evidenziando che “alla base di un flusso migratorio eccezionale, forse di dimensioni bibliche, vi e’ una somma di motivazioni, molte nobili, ma alcune pericolose: sicuramente un anelito di libertà, in alcuni casi la povertà, ma preoccupa anche l’infiltrazione del terrorismo islamico, che c’e’ sicuramente nella Cirenaica, che secondo noi e’ già a forte rischio. Va bene l’esecrazione generale – ha ricordato il titolare del dicastero – ma poi non avere dall’Europa un appoggio forte in termini di risorse, se non di condivisione di accoglienza come noi ci augureremmo, ci sembra veramente un atto di debolezza e non di forza dell’Europa”.
E infatti, ancora una volta, bisogna evidenziare il consapevole immobilismo dell’Europa, la cui politica estera e regionale sembra essere infarcita di roboanti proclami, ma non è certo prodiga di soluzioni pragmatiche per il breve, medio o lungo termine, sebbene il Presidente della Commissione Europea Barroso, a margine della riunione di oggi del Consiglio Europeo per gli Affari Interni abbia affermato che “al problema si dovrà dare una risposta in modo europeo, attivando un’azione della Commissione per la cooperazione dei governi”. Le parole di Barroso sono però smentite dalla decisione con cui l’Europa, oltre a dimostrarsi poco incline alla concessione di fondi all’Italia per affrontare una potenziale emergenza, respinge l’ipotesi di distribuire i migranti che dovessero arrivare tra i diversi Paesi membri. L’UE sta considerando la possibilità di un intervento militare quale tentativo di risolvere, almeno in parte, l’emergenza umanitaria in loco, ma per bocca degli stessi rappresentanti di Bruxelles, “l’ipotesi allo studio riguarda un tema delicato e complesso”. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha però detto che si tratta di un’ipotesi ancora lontana dal concretizzarsi: “Per azione militare umanitaria – ha sottolineato – immagino che si intendano azioni di peacekeeping come quelle in cui siamo impegnati in diverse parti del mondo, ma non mi pare che ci siano le condizioni in questo momento”.
Consultazioni a stretto giro sono invece state concordate telefonicamente tra i principali leader europei (Sarkozy, Berlusconi e Cameron) e il presidente degli Stati Uniti in merito alla possibilità di pianificare azioni coordinate e concrete al fine di assicurare un’adeguata assistenza umanitaria. E’ ovvio che la situazione nel Paese africano è tutt’altro che stabile e solo i prossimi giorni ci diranno come evolverà. Di certo le due dimensioni cui abbiamo accennato in apertura sono le due gambe sulle quali questa crisi si muoverà verso l’Europa e questo è il motivo che dovrebbe spingere l’UE ad agire in maniera unitaria e pragmatica, piuttosto che meramente politica.