Del resto, la protagonista fa ‘Di Sangro’ di cognome, e il fratello, guarda un po’, si chiama Raimondo. Naturale quindi che si esca dal cinema avvolti da una scia alchemica che dura anche nei giorni successivi.
Parthenope -divina, ipnotica Celeste Della Porta– è giovinezza che incanta, è Sorrentino che rievoca, è Napoli che viene osservata ad ali spiegate prima da un punto altissimo e immobile per accogliere con lo sguardo le sue infinite identità e poi in planata, sfiorando il mare, avvicinandosi ai ricordi quel tanto che basta a renderli vividi pur mantenendoli sul fondo.
Un avvertimento importante: è un film che racconta Napoli centrando sulla sua ineffabilità. Richiede, quindi, pori aperti sulle percezioni piuttosto che sulla narrazione. Non il ritratto dannato da narcotrafficante né quello oleografico da Scuola di Posillipo.
Nonostante l’opulenza di case in collina, carrozze dorate, e gioielli del Duomo, nonostante la ferocia degli uomini e l’ombra dei vicoli -pure così ben raffigurati- bisognerebbe andare al cinema come se si entrasse al MoMa di New York più che a Capodimonte. Sorrentino non è un vedutista. È un regista astratto, pura avanguardia emozionale, dipinge i suoi personaggi con pennellate sicure e ravvicinate, con dialoghi più narrativi che realistici, e con una bellezza folgorante, conturbante, disturbante perfino.
Stringere Parthenope nei confini di una trama, di un qualcosa che abbia un inizio, una fine e in mezzo pure un qualche tragitto è esercizio non solo vacuo ma addirittura inutile, così come inutile è il tentativo perenne di catturare una sirena che, essendo per metà pesce, sfugge da secoli a ogni definizione possibile. Ecco allora che Sorrentino alza il punto di osservazione. “Io non giudicherò Lei, Lei non giudicherà me” le dice a un certo punto il prof. Marotta, un immenso Silvio Orlando. Napoli include tutto tranne il giudizio e il pregiudizio, che le scivolano addosso senza lasciare traccia.
Seguendo e inseguendo la vita di Parthenope si raggiunge a tratti una commozione estatica. Vibrano non tanto le corde emozionali dei sentimenti quanto quelle della bellezza struggente e dell’impalpabile. Una sorta di sindrome di Stendhal accompagna dolcemente anche fuori dal cinema, sulla via di casa mentre si ricorda lo sguardo assoluto che la protagonista ha sulle cose della vita, sfuggente e abissale, quando si riconoscerà nel suo professore o nel suo vescovo (ottimo Peppe Lanzetta perfettamente calato nel ruolo). Uno sguardo che resterà intatto e fedele a se stesso anche quando, dopo anni, Parthenope si ritroverà “Napòlide”, per dirla alla Erri De Luca.
Molto discusse le scene più forti, bollate da alcuni come forzatura stilistica. Per la verità possono essere considerate perfettamente coerenti con la scelta artistica del regista se lo si considera più vicino a Botero, come nella incredibile e commovente scena finale, che a Giacinto Gigante. Sorrentino è infatti un artista figurativo, non un realista. Le sue figure surreali e quasi pop traggono linfa dalla realtà solo per pensare ad altro, “a tutto il resto”, come si legge negli occhi di Parthenope.
Così, Sorrentino trasforma lo squallore decadente dei Quartieri, ormai così tanto masticato e digerito dalle serie tv da risultare tremendamente scontato, in un amplesso teatrale e collettivo che richiama La Pelle di Curzio Malaparte; ancora, riesce col suo registro metafisico a rivestire la miseria della logica camorristica di una bellezza poetica e sognante, facendo calare nell’atrio di un palazzo seicentesco delle lanterne azzurre che sembrano all’apparenza meduse e che poi si rivelano ben altro.
Insomma, ci vuole del genio per trasformare tanto fango in oro, e allora che ben venga andare al cinema per farsi avvolgere da questa malìa: che sia frutto dell’incantesimo di una sirena oppure della pietra filosofale di Sorrentino, grande alchimista della macchina da presa.
di Lidia Monda