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Il fantasma della democrazia e l'esodo biblico dei libici

di Mariano Colla

Gli eventi si rincorrono con tragica fatalità. I media riferiscono quotidianamente di un Nord Africa in movimento, alla ricerca di una sua nuova identità, libera da dispotismi e influenze politiche esterne, in grado di esprimere i valori democratici e laici di una cultura moderna, peraltro ancora di difficile applicazione in molti dei paesi che si affacciano sul mediterraneo. Noi occidentali siamo stupiti e, in parte, impreparati a interagire con le emergenti dinamiche sociali e culturali che si stanno diffondendo con aspri movimenti di piazza in una regione che, anche grazie ai nostri “placet” politici, pensavamo tranquilla e priva di pericolosi ideologismi. La protesta popolare è inarrestabile e un nuovo orizzonte politico si sta affermando in una terra segnata da colonialismi, dittature, ingerenze estere. Una prospettiva nuova e stimolante per un popolo in fermento, pur con le difficoltà di una transizione, potrebbe essere il primo commento.

Vi è, invece, un elemento che sorprende e stona. Un elemento che, a mio avviso, andrebbe accuratamente studiato per capire sino in fondo le dinamiche alla base delle manifestazioni in atto, ossia la forte migrazione che le rivolte in corso stanno determinando. I titoli dei giornali e i notiziari televisivi, sollecitati da un incremento di sbarchi clandestini sulle nostre coste e isole, ventilano la possibilità di un imponente esodo, destinato a infoltire le masse di disperati che ricercano in Europa una nuova vita e una nuova dignità.

Non mi sorprende tanto il fatto che vi siano degli sbarchi, fenomeno fisiologico alimentato da quasi tutti i paesi africani, quanto fa riflettere l’intensificarsi dell’esodo proprio a ridosso dei movimenti rivoluzionari di protesta che hanno determinato il crollo dei regimi in Tunisia, Egitto, Libia, con, inoltre, la prospettiva di un ampliamento, nella regione, delle insorgenze popolari contro ogni forma di assolutismo. Esodo costituito, in buona parte, proprio dai cittadini dei paesi in rivolta.

Forzando un paragone, è un po’ come se parte del popolo francese, animatore della rivoluzione del 1789, se ne fosse andato dalla Francia, appena abbattuta la monarchia e con la prospettiva di una imminente repubblica. I moti di piazza hanno scalzato dittatori, apparentemente irremovibili, e aperto, almeno sulla carta, delle nuove prospettive politiche e di sviluppo, hanno posto le basi per nuove forme di governo democratiche, alimentando le aspettative di una società non più passiva bensì interessata a partecipare attivamente alla vita politica e sociale dei propri paesi, contenendo i privilegi governativi delle èlite intellettuali e militari. Aspettative che richiedono tempo per consolidarsi e trovare una concreta via realizzativa, ma che dovrebbero dare fiducia e credibilità a un futuro migliore, generare un certo entusiasmo nella costruzione di qualche cosa di nuovo e non produrre, come sembra, una fuga massiccia verso le incognite dell’occidente.

Se la dimensione del fenomeno migratorio dovesse effettivamente raggiungere la estensione di un paventato esodo biblico, mi sorge spontaneo un perché. Perché, nella prospettiva di una democrazia, così fortemente voluta, a migliaia abbandonano la scena per imboccare la via dell’emigrazione che offre ben poche speranze di una dignitosa collocazione all’interno di un Occidente, stretto da crisi di sviluppo e di occupazione?

Stupisce la quantità di giovani che mettono a rischio la propria vita per raggiungere le coste italiane su fragili barconi, in mano a scafisti senza scrupoli che prosciugano, per un viaggio della speranza, anni di risparmio. Se si è rischiata la vita per abbattere dei dittatori e per dare un nuovo orizzonte politico e sociale al proprio paese, perché, dunque, rischiare nuovamente la propria esistenza per ridursi in una potenziale schiavitù in un mondo estraneo, perché rientrare in una diaspora identitaria, con la perdita della propria cultura e dei propri riferimenti?

Una prima risposta a queste domande, mi porta a individuare, nei nuovi profughi, vecchi sostenitori dei regimi, terrorizzati da eventuali vendette a loro carico, esercitabili da soggetti che si sentono autorizzati ad agire nella situazione di caos temporaneo, tuttora presente nei paesi in subbuglio. Una seconda risposta potrebbe individuare nei fuggiaschi, elementi non coinvolti direttamente nei movimenti di massa, in qualche modo politicamente agnostici, che vedono nella destabilizzazione incombente motivi di pessimismo e di sfiducia circa il recupero economico del paese. Un qualunquismo politico che induce al nichilismo.

Terza risposta potrebbe riguardare i delusi della prima ora. Noi abbiamo vissuto i movimenti di piazza attraverso stampa, televisione, inviati speciali che, “travet” della notizia e dello ”scoop”, non hanno esaminato a fondo la complessità delle situazioni che hanno generato insurrezioni e proteste. In generale si sono additate le opposizioni come le forze che hanno avviato e determinato il cambiamento, ma opposizione è un termine vago e, spesso, non ne è stata svelata struttura e composizione politica.

La lettura degli eventi può quindi essere aperta a interpretazioni a noi non chiare, ma che possono determinare delusioni e aspettative inevase di protagonisti e militanti, soprattutto quando, caduto il tiranno di turno, si deve, in qualche modo, ridistribuire il potere con programmi e obiettivi. Non posso escludere che alcuni abbiano già rivisto i segni di una potenziale corruzione.

Stupisce che il mondo occidentale, con i suoi simboli in caduta libera, possa essere la soluzione per queste masse migranti, in qualche modo deluse. Stupisce, in particolare, che l’Italia, componente debole dell’Europa, possa garantire agli occhi di tanta gente , condizioni di lavoro e di integrazione soddisfacenti, tali da giustificare, in questo momento, il grande salto. Una diaspora senza prospettive, tanto più drammatica quanto più in contrasto con il senso che le nuove ipotesi ideologiche del paese di provenienza sembrerebbero garantire.

La democrazia nel Nord Africa e in Medio Oriente è un esperimento, e ha il difficile compito di coniugare una sempre più pronunciata laicità con le ombre di un integralismo religioso che potrebbe trovare spazi politici per i suoi rappresentanti. Certamente una sfida che richiederebbe l’impegno di tutte le forze fresche dei paesi alla ribalta.

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