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Ecologia del vivere: quella strana calma dei giapponesi

di Stefania Taruffi

Siamo tutti agghiacciati davanti alle immagini della catastrofe giapponese che in questi giorni ci scorrono davanti su video e tv: Un terremoto di magnitudo 9 e uno tsunami tra i più devastanti della storia umana, che hanno spazzato via con una forza devastante intere città. Una catastrofe che avrebbe messo in ginocchio qualsiasi altro paese e portato disperazione tra la gente, distrutto la maggior parte dei palazzi, gettato nel panico governi e istituzioni, paralizzando il presente e il futuro di un paese. Ma non il Giappone, non i giapponesi, un popolo che è educato e cresciuto con un fortissimo senso di ‘autocontrollo’, attraverso un esercizio psicofisico costante per governare le emozioni che non devono essere mostrate in pubblico in nessun caso, sia in caso di felicità sia di tristezza. Questo popolo è unito da un forte sentimento nazionalista, da un senso di appartenenza alla collettività, al gruppo, piuttosto che alle singole individualità. Costretto a vivere su una piccola terra altamente sismica ad alta densità demografica, ha sviluppato necessariamente un modus vivendi rispettoso del prossimo, degli spazi altrui, in un contesto fortemente organizzato da regole dettagliate e minuziose per ogni situazione. Un sistema basato sulla pianificazione strategica, sul training, sulla preparazione, sul controllo, sulla prevenzione piuttosto che sulla cura, a qualsiasi livello.

D’altronde la tradizione giapponese è stata sempre orientata alla creazione di un codice comportamentale al quale attenersi. Non è un caso che una delle opere letterarie più significative tramandateci dal Giappone è stato Hagakure, pubblicata nel 1906 ma composta due secoli prima. L’opera incentrata sullo spirito e il codice di condotta del samurai, ebbe ampia diffusione, e dopo la pubblicazione subì la strumentalizzazione del militarismo giapponese della prima metà del XX secolo, al punto che i kamikaze portavano con sé questo testo come ultimo compagno di morte.

Il tema principale del testo è la morte, non come semplice estinzione della vita, piuttosto nel senso psicologico dell’eliminazione dell’io. Altro non è che una raccolta di principi morali ma anche di consigli pratici, norme comportamentali, notizie storiche ed episodi esemplari di valore. Alcuni sono di natura assai spicciola (come reprimere uno sbadiglio o come licenziare un servo) e di semplice etichetta, altri invece costituiscono il nucleo del bushido cioè di quell’insieme di principi che costituì per secoli l’etica di tutto il popolo giapponese.

La conseguenza pratica di quest’etica di antico retaggio, tramandata nella tradizione dei secoli, sono gli edifici che non crollano perché costruiti con seri criteri antisismici, i generi alimentari che non finiscono, perché i giapponesi si mettono in fila senza accaparrarsi tutto a discapito degli altri. Servizi che continuano a funzionare seguendo criteri d’emergenza, peraltro già ampiamente previsti; evacuazioni che riescono perfettamente dopo tante simulazioni. Tutto questo ha salvato migliaia di vite umane e renderà possibile un’accurata pianificazione della ricostruzione . Certamente alla fine i giapponesi ne usciranno lacerati, ma certamente a testa alta, ulteriormente rafforzati, come del resto hanno sempre fatto in passato.

Foto in licenza CC: Afredoilde

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