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Libia: la guerra che divide l'Europa e l'Italia

di Paolo Cappelli

Mentre il mondo assiste ai bombardamenti in Libia, a livello politico e geostrategico iniziano le prime riflessioni sulla situazione e sulle strade che questa potrà prendere. Le voci sembrano essere tutte concordi sul fatto che al momento è impossibile immaginare una possibile soluzione al conflitto senza lanciarsi in speculazioni che sanno di occultismo. La prima domanda alla quale non è possibile dare risposta è se gli attacchi riusciranno a persuadere Gheddafi che è finito il tempo del potere. In Kosovo, nel 1999, ci vollero 78 giorni di bombardamenti sulla Serbia per realizzare che Milosevic non pensava affatto a mollare il timone, sentendolo ancora ben saldo. Fu solo l’intervento dei russi a convincerlo che il suo impero era al tramonto. Il risultato peggiore che l’attuale sforzo militare potrebbe conseguire è quello di lasciare Gheddafi sulla poltrona e permettere la creazione di una Libia orientale, con capitale Bengasi, e di una occidentale, sotto il controllo del Colonnello, con base a Tripoli. A quel punto, il mondo, l’Europa e soprattutto l’Italia, avrebbero di fronte una bestia ferita e capace di qualsiasi tipo di reazione. In questo senso, la volontà annunciata di reagire agli attacchi militari della coalizione non sarebbe il problema maggiore.

Per capire quale potrebbe essere, in realtà, lo scenario futuro, vanno considerati altri fattori, in primo luogo gli attori coinvolti e le singole aspettative. Sul fronte occidentale, gli Stati Uniti e l’Europa hanno dimostrato due cose: in primo luogo, che l’America è una potenza in declino, economicamente, politicamente e militarmente. La crisi economica ha influito fortemente sul bilancio dell’unione a stelle e strisce e ridimensionato le sue ambizioni geopolitiche. Cosciente di non poter mantenere in piedi più operazioni militari in teatri esteri contemporaneamente, l’America ha abdicato al suo ruolo di superpotenza egemone nella gestione delle crisi dal loro insorgere alla loro risoluzione. Con il suo discorso del Cairo, prima uscita internazionale dopo la sua elezione, Obama annunciò di voler accettare una politica multilaterale, in cui gli oneri politici ed economici delle crisi fossero condivisi tra tutti gli aventi causa. E mentre l’interventismo di Bush aveva portato gli Stati Uniti a trascinare il Regno Unito prima, e tutta la NATO dopo, nel pantano afghano, questa volta e per un ricorso storico, sono state la determinazione del Presidente francese Sarkozy e l’intraprendenza del Primo Ministro inglese Cameron a fare la differenza. Sono questi due Paesi i veri leader dell’operazione Odissey Dawn (Alba dell’Odissea e non Odissea all’alba, come riportato da molti media) e a loro va fatta risalire l’iniziativa. Gli Stati Uniti si sono ritrovati, loro malgrado, in un’operazione che avrebbero voluto evitare e che intendono chiudere al più presto possibile, subito dopo aver azzannato ai polpacci e atterrato un gigante d’argilla, come le forze armate libiche. Successivamente, potranno dire di aver contribuito a modo loro e lasceranno alla NATO (come realtà politico-militare) e all’Europa (come soggetto politico) la responsabilità di confrontarsi con le sfide future.

E questo ci porta al secondo degli attori occidentali: l’Europa. Nel momento in cui emerge la prima vera crisi che interessa direttamente il Vecchio Continente, tanto in termini di pericolosità diretta (intervento militare a due passi da casa) quanto indiretta (flussi migratori di eccezionali proporzioni), l’Europa e l’unità politica che dovrebbe rappresentare rivelano tutta la loro debolezza e, se si vuole, inconsistenza. Sono proprio gli interessi nazionali a prevalere in una situazione di guerra prevista, immaginata e poi combattuta. La Francia aveva fatto decollare i propri aerei ben prima che terminasse un incontro al massimo livello politico per decidere il da farsi, in barba a quel consenso che dovrebbe animare le attività di un soggetto politico quale l’Europa.

Sul fronte opposto, molti dei commentatori che a ogni crisi sono chiamati ad affollare le trasmissioni di approfondimento giornalistico hanno centrato le proprie riflessioni sulla situazione del Maghreb dal Marocco all’Egitto, ma solo pochi hanno citato l’importanza del referendum che proprio in Egitto si è tenuto ieri. Il risultato è che, per un verso, la Fratellanza Musulmana ora guarda con maggior fiducia al recupero di un ruolo di primo piano nello scacchiere nazionale, mentre per l’altro è venuta meno un’interfaccia tra lo scacchiere internazionale e il mondo arabo. La prima, peraltro, ha gioco facile, rappresentando di fatto il massimo della democrazia possibile in un contesto giuridico shariatico cui il paese del delta del Nilo non ha rinunciato con il suo referendum. La caduta di Mubarak rappresenta la scomparsa di un interlocutore privilegiato con un altro attore fondamentale della dimensione mediorientale: Israele. Viene da più parti fatto rilevare, infatti, che i grandi sommovimenti popolari nascono dal basso e si oppongono alle dittature che fino a questo momento hanno impedito lo sviluppo di una democrazia capace di dare le giuste risposte alle istanze di uno strato sociale completamente mutato rispetto al passato. Più del 70% degli abitanti dei paesi dove sono avvenute sommosse e rivoluzioni ha meno di 25 anni, è dotato di una scolarità ampiamente superiore rispetto a quella della generazione che l’ha preceduta e gode di un vantaggio incolmabile, l’accesso a internet. E’ ovvio che regimi nati 40 anni fa e mai rinnovatisi non potevano più reggere né fornire risposte a una siffatta popolazione.

In questa situazione, si inseriscono due problemi: la questione del rapporto tra la Palestina e Israele e i diversi atteggiamenti dell’OLP e di Hamas, da una parte, e il ruolo regionale dell’Iran, dall’altra. In merito al primo, si può osservare che l’ideale della Fratellanza Musulmana e di Hamas non si limita all’istituzione di uno stato palestinese, né si concentra sui confini a suo tempo stabiliti dalle potenze ex-coloniali, ma mira alla realizzazione di un ideale degno dei migliori sforzi di restaurazione: la ricostituzione di un grande califfato musulmano transnazionale. In quanto al ruolo dell’Iran, l’occidente si è concentrato e continua a tenere sotto controllo la questione nucleare, ma sembra non prendere atto delle mire espansive del paese mediorientale, confermate da recenti eventi, come il transito di due imbarcazioni della Marina iraniana attraverso il Canale di Suez e il loro stazionamento in acque internazionali con la costa di Israele “a portata di missile”. Un modo neanche tanto sottile per dire al paese con la Stella di David che il Mediterraneo non si può più considerare una sponda sicura come in passato. E’ proprio il fallimento di una politica capace di parlare alle coscienze dei popoli del Mediterraneo ad aver creato quel vuoto in cui l’Iran cerca di trovare una collocazione e un fulcro attraverso cui spingere ancora oltre l’auspicato rinnovamento dell’ordine mondiale. Non sarà sfuggito che esiste uno scollamento tra queste proteste e quelle del passato nei paesi arabi. La principale differenza è la depoliticizzazione e dereligionizzazione delle proteste: non è stata bruciata una singola bandiera americana o israeliana, a significare che dietro i manifestanti non ci sono le ideologie dei regimi che guidano quei paesi. La base è costituita oggi da un’opinione pubblica scalabile, con cui l’occidente e Israele devono e dovranno, volente o nolente, confrontarsi, perché è la stessa opinione pubblica a voler giocare un ruolo nella democratizzazione di una parte del mondo arabo.

L’Italia, come l’Europa nel suo complesso, deve fare della stabilizzazione delle democrazie dei paesi che affacciano sul Mediterraneo un suo interesse strategico e promuovere azioni politiche concrete per garantire nel breve e medio periodo il rispetto di una dottrina divenuta oggi imperante, ovvero la responsabilità di proteggere gli inermi civili dall’assenza di democrazia e libertà, che è spesso sinonimo di dittatura, di violazione dei diritti umani e, nei casi più disperati, anche di morte. La democrazia è un valore in sé e siamo oggi chiamati a difenderla ancor più fortemente, giacché 8000 chilometri delle nostre coste sono bagnate da un mare che chiamiamo Nostrum.

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