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"Rosso Floyd", Michele Mari e i fantasmi del rock

Di David Spiegelman
Credevo che i Pink Floyd fossero scesi sulla terra per lasciare non tanto la loro musica, pure significativa nella fine del secolo scorso, quanto una storia che riassume nelle sue scansioni quella di ognuno: l’amicizia, il dolore, la separazione, la rappacificazione, l’illudersi, fino alla ricerca del sopravviversi nell’arte. Ora scopro che nella loro missione c’era anche l’ispirare un libro importante, l’ultima opera di Michele Mari. Lo scrittore milanese – già capace degli abbaglianti racconti di “Tu, sanguinosa infanzia” ed “Euridice aveva un cane”, oppure il romanzo stevensoniano “Verderame” fino al geniale “Tutto il ferro della Torre Eiffel”, allucinata e rigorosa crestomazia del primo Novecento in una Parigi dove si inseguono Benjamin e Bloch attorno a implausibili fossili letterari – ha 55 anni e quindi ha vissuto sincronicamente l’ascesa e la stasi del gruppo britannico.
Ma non si tratta della testimonianza di un fan, né della biografia di un percorso artistico pure capitale e ricco di snodi interculturali: come ogni capolavoro “Rosso Floyd” (Einaudi, p. 282, 20 euro) affronta in apparenza un argomento per parlare d’altro, molto altro. Quando, anni fa, Tim Burton scelse di raccontare la vita di Ed Wood, il regista di B-Movies considerato il peggiore della storia del cinema, la materia narrata lasciava ipotizzare possibili scivolate nel grottesco estremo: il film, incentrato sul rapporto di Wood con Bela Lugosi vecchio e morfinomane, divenne invece una commovente elegia sull’amicizia tra due vite segnate dalla disperazione.
Così Mari, secondo una struttura fedele alla sua devozione al Barocco, che lo porta ad allestire la rappresentazione romanzesca nei canoni dell’istruttoria giudiziaria (il sottotitolo dell’opera è “Romanzo in 30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione”), trasforma una storia collettiva nella descrizione delle conseguenze di una Grande Assenza: quella di Syd Barrett, considerato la vera anima dei Pink Floyd e la reale ragione della controversia che avrebbe opposto, fino ai giorni nostri, il chitarrista David Gilmour e il bassista Roger Waters, apparenti portatori di due visioni artistiche diverse e in realtà divisi soltanto dalla fatica di gestire l’eredità intestata di una persona viva e non viva.
Mari ama parlare dei morti come se fossero più vitali delle persone ancora presenti e infatti tra le voci chiamate a raccolta, in questo strano coro narrativo, ci sono anche quelle di anime inattingibili, perciò espresse secondo stile congetturale. La forza dell’opera, interamente immaginaria per quanto basata su riscontri storici concreti, è la sua verisimiglianza nelle tesi di fondo: non serve pertanto essere conoscitori della musica dei Pink Floyd per addentrarsi con cognizione nella casa di specchi edificata da Mari, fino alle profonde vertigini del finale. Per la verità, il romanzo non ha una dinamica narratologica tradizionale, è come una fotografia panoramica scattata diacronicamente e quindi si conclude in maniera tronca e inappagante. La vera conclusione, come in un disco dei Pink Floyd, sta acquattata in una pagina apparentemente appartata, in cui Mari chiama sul banco dei testimoni, in un processo virtuale forse volutamente simile a quello di “The Wall”, il regista Kubrick, che focalizza un episodio scintillante: la richiesta, inesaudita, di Waters per usare la voce del computer Hal 9000 in una canzone quindi rimasta incompleta. Lo scrittore ha una spiegazione tagliente ed esatta per quel desiderio del musicista, che sublima la fisionomia scalena e incompleta, a richiamare quel teorema di Goedel che informa inconsciamente molta dell’arte contemporanea, di un gruppo che aveva creduto di sopravvivere arbitrariamente al suo capo. I libri di Mari, come quelli di Henry James, sono popolati di fantasmi e anche questo vive e si consuma sulla voce silenziosa di Barrett, diamante pazzo capace di brillare soltanto in quattro amici condannati a intuire quel che egli e nessun altro sarebbe stato capace di fare. «Lui recluso sottoterra e loro a riempire gli stadi del mondo, ma erano suoi».

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