di Paolo Cappelli
In Israele si guarda con apprensione alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite di settembre. All’ordine del giorno compare si potrebbe sollevare la questione del riconoscimento di uno stato palestinese secondo i confini del 1967. Già il settembre dello scorso anno fu definito di cruciale importanza dal ministro degli esteri Avigdor Lieberman per diversi motivi: era il mese dell’Assemblea Generale, coincideva con la scadenza della moratoria di 10 mesi sugli insediamenti e con un momento politico in cui il partito laburista guardava con attenzione alle mosse del primo ministro Benjamin Netanyahu per decidere se rimanere nel governo o meno.
“Dipende tutto da settembre”, annunciò enfaticamente Lieberman in un suo comunicato, supportato da dichiarazioni dello stesso tenore del ministro della difesa Ehud Barak. Poi settembre arrivò, l’Assemblea Generale si riunì, la moratoria arrivò alla fine, i colloqui con i palestinesi si interruppero, i laburisti non lasciarono il governo e non successe nient’altro di politicamente o diplomaticamente rilevante. Poi passarono anche gli altri mesi. Siamo arrivati ad aprile e tutti rivolgono di nuovo lo sguardo a settembre. Settembre è il mese in cui il Presidente Obama disse, nel suo discorso alle Nazioni Unite, che sarebbe stato lieto di accogliere lo stato palestinese nel novero delle nazioni, il mese in cui il primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad annunciò che le istituzioni palestinesi erano pronte a governare, e quello in cui i palestinesi potrebbero chiedere il riconoscimento formale da parte delle Nazioni Unite della propria statualità. A leggere le dichiarazioni di molti, il prossimo settembre rappresenterà lo spartiacque tra un’era e un’altra. Vediamo di illustrare più compiutamente la questione.
In primo luogo, vale la pena sottolineare che, visto l’attuale isolamento di Israele, le cose non sono poi così negative. Da tempo è condivisa dai più l’idea che il 2011 sarebbe stato un anno difficile per le relazioni tra gli Stati Uniti e Israele, forse uno dei più difficili. La posizione di Obama nei confronti del conflitto è abbastanza distante da quella di Netanyahu e del suo governo, ma la ragione del pressing americano sullo stato della stella di David si spiega attraverso il futuro calendario del Presidente: dopo il voto di metà mandato dello scorso anno, Obama aveva a disposizione circa un anno per intraprendere tutte le azioni ritenute necessarie a risolvere il conflitto israelo-palestinese prima della partenza del carrozzone delle elezioni presidenziali del 2012.
In questo processo, tuttavia, si è inserito un evento inatteso: la rivoluzione democratizzatrice del Nord Africa, che ha aggiunto al sistema fattori altamente instabili. Le vecchie alleanze, come quelle tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, hanno allora iniziato a vivere un periodo di considerevole tensione. Il risultato dei recenti sviluppi è stato un cambiamento nelle priorità. Viene ancora appoggiata l’idea di ricercare una soluzione in fretta e comunque prima del consolidamento di un nuovo ordine in Medio Oriente, ma la pressione che tutti si aspettavano Obama esercitasse su Israele è di gran lunga più lieve del previsto e questo per le note questioni regionali. Al Presidente israeliano Shimon Peres, ricevuto a Washington il 6 aprile scorso, ha detto che “il vento di cambiamento che spira nel mondo arabo rappresenta un’importante opportunità per trovare una soluzione pacifica condivisa da palestinesi e israeliani”, decisamente un approccio non molto contundente.
Ciò non significa che Israele non dovrà affrontare sfide diplomatiche importanti nei prossimi mesi da parte di Washington o di altre capitali europee, per le quali si possono immaginare diversi scenari. Uno potrebbe essere una risoluzione del Quartetto (Stati Uniti, UE, ONU e Russia) che chiede l’istituzione di uno stato palestinese secondo i confini del 1967 a seguito di scambi di territori. Questa prima opzione rappresenterebbe una seria battuta d’arresto dal punto di vista diplomatico, anche se con effetti limitati, che in una certa misura invaliderebbe la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, con la quale si chiese a Israele di ritirarsi da alcuni dei territori catturati durante la guerra dei Sei Giorni.
Un secondo scenario riguarda il riconoscimento dello stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ehud Barak, in una sua recente dichiarazione, ha affermato che “sebbene gli israeliani non siano al corrente del possibile tsunami diplomatico, anche dopo lo tsunami c’è sempre un momento in cui ci si fanno delle domande: a quel punto toccherà ai palestinesi chiedersi cosa riserva il futuro, quali sono i confini, cosa devono fare. Il risultato è che, anche se le Nazioni Uniti riconoscessero una nazione palestinese, l’Autorità Palestinese non sarebbe in grado di implementare tale riconoscimento nei fatti senza assumere il controllo del proprio paese, qualcosa che al momento non può o non vuole fare”. Ecco che Gaza rimane un oggetto cristallizzato, come già fu nella conferenza di Annapolis del 2007. In quanto a una possibile riconciliazione di Fatah con Hamas, si tratta di qualcosa di altamente improbabile perché quest’ultimo, come chiunque altro nel mondo, è ansioso di vedere quale sarà il futuro dell’Egitto.
Una risoluzione pacifica richiederà la presenza di leader capaci e volenterosi su entrambi i fronti. Poiché una presenza di questo tipo sulla scena è difficile da immaginare prima di settembre, anche questa scadenza potrebbe arrivare e passare, come in passato ne sono passate molte altre, lasciando la situazione nell’immobilismo.